PREAMBOLO DI ADESIONE
No prison, 24 gennaio 2013
Sono trascorsi oltre 37 anni dalla Legge 354, quasi 50 dall’inizio della sua gestazione, e possiamo affermare senza possibilità di smentita che è fallita su tutti i fronti. Anche se questa realtà conclamata manderà in crisi tanti operatori e addetti ai lavori, figli di una cultura carcerocentrica, è ormai evidente che questo modello di esecuzione penale non può più continuare, le prigioni devono essere chiuse per far spazio a luoghi di “non libertà” che siano rispettosi dei diritti delle persone condannate per le quali risulti impossibile la remissione in libertà, in tempi brevi o lunghi, ed attui veramente il dettato costituzionale dell’art. 27, dove recita “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E’ necessario ripensare completamente le modalità di esecuzione delle condanne, eliminando dal nostro lessico il termine “pena”, che tanto ricorda la gogna e il suo retaggio culturale e corporale nell’afflizioni e sofferenza, ridando dignità anche ai termini che usiamo per indicare gli obblighi e i doveri. I dati di questo fallimento sono davanti agli occhi di tutti coloro che a vario titolo hanno a che vedere con il mondo penitenziario, e lo sono sia sotto l’aspetto punitivo, che rieducativo, nonché di sicurezza. L’aumento costante della popolazione carcerata rende evidente a chiunque come la paura della punizione non sia un argomento tale da ridurre i reati e lo spettro della prigione non funga da inibitore agli atteggiamenti devianti. La recidiva, dato empirico e difficilmente dimostrabile compiutamente, ma che serve, pur nella sua frammentarietà reale, ad avere un quadro verosimilare di cosa produca la detenzione, è sempre altissima e ci dà un ulteriore e qualificato elemento per argomentare di questa inutilità. Qualcuno potrebbe obiettare che il vanificarsi dei risultati è la conseguenza dell’assenza di alcuni elementi e presupposti per un’efficacia dell’esecuzione penale intramuraria. Dalla pratica quotidiana penitenziaria però si evince come anche l’eventuale aumento di personale trattamentale, presente da sempre negli istituti in maniera che dire insufficiente è un eufemismo, maggiori educatori ed assistenti sociali non sposterebbe granché l’effetto. Altrettanto dicasi per la presenza della polizia penitenziaria, in questo caso in un numero smisurato rispetto al resto dei modelli penitenziari europei, che se pur avesse una qualità umana e professionale elevata a potenza non cambierebbe il risultato finale. Questo perché è il luogo e l’impianto che sono fallimentari! Pertanto: per riportare le persone alla legalità ed al rispetto delle regole è assolutamente necessario che anche le regole del sistema siano rispettose delle persone! I luoghi preposti per questo tempo di espiazione (leggi edilizia penitenziaria) sono stati pensati per l’afflizione e la punizione, non per costruire il ravvedimento. Come possono centrare l’obiettivo della rieducazione se sono oppressivi e violenti? I soggetti che sono preposti professionalmente a costruire il “trattamento” sono oramai de-professionalizzati e de-motivati, se non in burn out. Non è da tralasciare anche una analisi della burocratizzazione inutile dei disposti dell’amministrazione centrale, sempre più isolata e inascoltata dai provveditorati e dai direttori di istituto, per una distanza abissale che con gli anni si è creata tra quanto elucubrato nelle circolari del Dap e quanto realmente vissuto nelle carceri. A parte le episodiche e striminzite risposte dei territori a proposte e politiche di reinserimento, che quasi completamente sono solo il frutto dell’organizzazione sociale spontanea della società civile, non c’è coinvolgimento, soprattutto culturale della popolazione; si richiedono spesso disponibilità per posti di lavoro senza che ci sia stata una precedente opera di sensibilizzazione e conoscenza nei processi e percorsi di reinserimento delle persone condannate, e anche quando ci sono questo avviene in modo farraginoso e scoordinato, con scarsi risultati in termini di efficacia. Il procedimento penale, istruttoria e processo, non garantiscono e tutelano le persone indagate povere e straniere. Le leggi sono troppo spesso inique: si condanno per il reato senza una anamnesi della persona che lo ha commesso. La comunicazione sociale che avviene rispetto a chi delinque è deleteria, producendo paura e chiusura. La carcerazione, infine, produce tanti e tali guasti, fisici e psichici, che troppo spesso chi la soffre diventa un invalido permanente. L’impianto e le convenzioni che ruotano attorno al mondo della giustizia e della conseguente esecuzione penale sono da resettare e ricostruire dalla radice. Il tutto deve però inserirsi in un procedimento più ampio, direi cosmico, per diventare un tassello di un puzzle che si inserisca nel quadro della ridistribuzione delle ricchezze con una riformulazione dei contratti sociali, per non continuare a chiedere cose giuste in un mondo ingiusto!
Livio FerrariMassimo Pavarini
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