Sul Carcere
di Pietro Chiaro
In una recente intervista, Gherardo Colombo, il noto magistrato di “Mani Pulite, che ha lasciato anzitempo la magistratura, per dedicarsi alla attività di divulgazione e conoscenza della Costituzione nelle scuole italiane, evidenziava le ragioni della sua scelta di vita. Egli raccontava di essersi accorto - quando, entrato in magistratura, dopo un certo tempo di attività nel ramo civile, era passato a quello penale - di non riuscire ad accettare di dover condannare persone che poi dovevano scontare la pena in un carcere, che, così come strutturato, al di là delle condizioni indegne di trattamento, non adempiva di certo alla funzione della pena come rieducazione e recupero (art. 27 della Costituzione).
Orbene il contenuto di questa intervista aveva suscitato perplessità in qualcuno che aveva ravvisato nel contenuto dell’intervista in questione una sorta di indebita sovrapposizione tra due piani che andrebbero invece tenuti ben distinti: cioè quello che si potrebbe definire
meramente etico e quello delle esigenze politiche, dettate da una società che ha necessità
di intervento nei confronti dei comportamenti di coloro che, con il crimine, mettono in pericolo la sicurezza della vita associata.
Devo dire che tale ultimo modo di argomentare, come ho avuto già occasione di replicare, costituito da questa sorta di iato che mi sembra si voglia mantenere tra l'etica, mondo ideale, e la società, con le sue esigenze di ordine e di sicurezza, mi lascia vieppiù perplesso. Non mi convince, infatti, questa ontologica scissione tra la società che "mantiene una sua autonoma configurazione" ed il modo carcerario, rappresentativo di coloro che vi appartengono, quali trasgressori delle regole, che la storia volta a volta impone al convivere sociale.
Siamo tutti figli di questa società. Anche nei confronti del peggior criminale, bisogna porsi il problema, sul piano culturale, del perchè e del per come la società possa averlo prodotto. Mai tralasciando di considerare che esso resta pur sempre un essere umano, che mantiene la dignità di persona, nei cui confronti non può valere la regola dell'occhio per occhio dente per dente, rectius vendetta, che resta espressione della barbarie e non di uno stato di diritto. Può darsi che quel soggetto, dico il peggior mafioso, irredimibile, non si ravveda; non riesca ad ammettere di aver violato la regola del convivere sociale: che resti quindi pericoloso per la società. In tal caso lo Stato lo terrà ancora sotto controllo, continuerà a negargli quella libertà che potrebbe renderlo ancora pericoloso per la società (Norvegia - dove non é previsto l'ergastolo - insegna in relazione al caso di quel giovane che ammazzò decine di persone). In tale ottica dovrebbe essere valutata la tematica dell'ergastolo. Ma tutto ciò sempre in un continuo percorso dialettico, di tentativo di recupero, di umanità nell'applicazione della pena, rappresentata dalla limitazione della libertà: il bene più grande per l'uomo. E' in questo senso che va letto l'art. 27 della Costituzione. recupero che non può mai, aprioristicamente, essere escluso; da ciò la messa in discussione della pena dell'ergastolo, di cui facevo cenno, che dovrebbe essere, alfine, dichiarato incostituzionale se sotteso ad un "fine pena mai"! E' stato infatti felicemente scritto che bisogna "innervare le carceri nella società" e "costruire il carcere nella speranza della dialettica sociale". Insomma: il predetto fa parte della società; esso deve essere strutturato in maniera tale da far sì che chi ha deviato possa recuperare e tornare nel contesto sociale Ad evitare il sentir ripetersi l'affermazione di quel detenuto che intervistato ebbe a dichiarare: "Ritrovo la mia vita, le cose non sono cambiate, rifarò quello che ho sempre fatto e, prima o poi, tornerò qui". La discarica sociale senza prospettiva di recupero!
Quindi é il carcere così come oggi inteso, in primis, sul piano culturale, e nella sua attuale pragmatica applicazione, che non può essere accettato; e rifiutato, come tale, dal magistrato Colombo. E' la presa d'atto di quel mondo, non rispondente, nel suo plafond culturale e nella sua concreta applicazione e strutturazione, al dettato della Costituzione, che la sensibilità di quel magistrato non é riuscito più a gestire. Chi sbaglia deve pagare, con auspicabile adeguata proporzione al suo errore; anche se, come comprenderai, tale proporzione é umanamente impossibile stabilire nella sua equa applicazione. Ma la pena non può essere senza termine, per una sorta di contraddizione che non consente, con l'idea del più volte citato recupero; e deve poi essere, nella sua esecuzione rapportata al tipo di violazione penale in cui si é incorsi; sì che non ha senso tenere in galera, ad esempio, il drogato, chi ha commesso un furto, l'immigrato in base al suo semplice status e via dicendo. Il tenere in cella la persona va vista come extrema ratio, adeguatamente valutando cosa significa essere astretti tra quattro mura per 24 ore, senza fare alcunché; incompatibilmente con il senso di umanità. Sicché, in tale ottica, é del tutto ovvio che non vi é bisogno di costruire nuove carceri; ma basterebbe ristrutturare adeguatamente quelle già esistenti e necessarie, per adeguare ad una dignitosa sistemazione chi deve essere ancora astretto, a fronte di una acclarata pericolosità. Il legislatore repubblicano ha opportunamente introdotto nell'ordinamento la figura del giudice di sorveglianza, premesso all'esecuzione della condanna del reo, seguendone l'iter detentivo, anche sul piano dell'evolversi della personalità, nel per della coazione; prevedendo, altresì, a partire dal 1975, le misure alternative alla detenzione (arresti domiciliari, semilibertà, l'affidamento al servizio sociale). Le leggi Gozzini (1986) Saraceni (1998) hanno rinvigorito la disciplina delle stesse.
Per concludere :
1) il carcere richiede un approccio culturale che prescinda dall'idea di vendetta;
2) il reo va condannato ad una pena che tenga conto del tipo di reato commesso, in concomitanza della valutazione della sua personalità per il tipo di pena da applicare;
3) in tale ottica la coercizione tra le 4 mura va vista come extrema ratio, assicurando, comunque, al reo il mantenimento della sua dignità di persona, attraverso una attività lavorativa e la tutela della sua salute e del suo mondo affettivo;
4) deve essere previsto un fine pena, perché ad ogni soggetto, anche il più responsabile, non può essere negata la possibilità, ancorché talvolta remota di recupero alla società;
5) é da tener quindi presente che il condannato é solo temporaneamente escluso dal convivere sociale, nel quale dovrà un giorno ritornare e reinserirsi;
6) é da considerare che la pena deve essere essenzialmente finalizzata al ristoro delle ragioni della vittima; tanto attraverso l'elaborazione del concetto di "perdono" (tanto caro all'ex magistrato Colombo), perdono, diciamo così, laicamente inteso.
Credo che un approccio alla tematica de qua del tipo di quella modestamente proposta servirebbe infine ad ottenere, in un certo qualmodo, quella sorta di"obbedienza" e di "adesione" del condannato alla necessaria reazione della società al vulnus apportatole dalla violazione della regola infranta e disciplinata dal codice penale.
Spero in tal modo di essere riuscito a spiegare il perchè della mia adesione all'argomentare di Colombo e, nel contempo, vedere soddisfatta la presunzione di avere aperta una breccia nel tuo modo piuttosto "rigoroso" circa la valutazione del prezzo del "peccato" e delle sue modalità esplicative di resa di conto imposte al reo.
Da un ex-magistrato che, al termine della sua trentennale fatica giurisdizionale, si é vieppiù, avvicinato, frequentandolo, a quel mondo di sofferenza e di dolore, cercando di conoscerlo più a fondo. Affiancandosi a chi, lodevolmente, si sta battendo per migliorarlo, sul piano di una auspicata svolta culturale, sempre più: nel rispetto dello spirito della norma costituzionale. E così vanno, peraltro, insegnando decisioni della Corte di Giustizia europee e della nostra Corte Costituzionale.
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